SCOTTISCHE VOLKSLIEDER

Articolo “tostissimo” del “peloritano” Gianluigi.
Riceviamo, pubblichiamo e ringraziamo commossi !

In un periodo compreso tra il 1809 e il 1818 Ludwig van Beethoven arrangiò e pubblicò alcune raccolte di canti popolari europei su commissione dell’editore di Edimburgo George Thomson. Inizialmente, il compositore tedesco mise insieme alcune raccolte di melodie provenienti da Irlanda, Scozia, Galles; successivamente l’elenco si arricchì di composizioni originarie di altre parti d’Europa: Inghilterra, Portogallo, Spagna, Francia, Svizzera, Italia, Tirolo, Danimarca, Svezia, Polonia e Russia.

Un consistente numero di canzoni scozzesi venne pubblicato in due edizioni: la prima come op. 108 nel 1815, mentre l’altra è stata inclusa (insieme ad altre composizioni dello stesso autore) tra i lavori senza numero d’opera, o, come si dice in tedesco, i Werke ohne Opuszahl. Si tratta di composizioni pubblicate molto tempo dopo la loro stesura manoscritta, di dubbia attribuzione o spurie e catalogate da Georg Kinsky e Hans Halm in vista della pubblicazione (avvenuta nel 1955) del primo catalogo completo delle composizioni beethoveniane. Questa raccolta vi appare come WoO 156.

Altri canti scozzesi si trovano sparsi nelle raccolte successive, catalogate come WoO 157, 158/1 e 158/a/b/c.

                              

L’interesse di Beethoven e di altri musicisti contemporanei e successivi verso la musica popolare è dovuto ad un progressivo distacco dalle forme e dagli stili provenienti principalmente dalla Francia e dall’Italia. Con il sorgere dei nazionalismi, nei primi decenni dell’Ottocento (ma già sul finire del diciottesimo secolo in Austria, sotto il regno di Giuseppe II), anche i generi musicali locali venivano riscoperti e valorizzati, sia pure in ambito ‘colto’ e quindi destinati ai salotti aristocratici e ai nuovi ambienti borghesi, in inarrestabile ascesa nella società europea dopo la tempesta rivoluzionaria in Francia e l’epopea napoleonica.

Non stupisce dunque il fatto di vedere questi canti eseguiti da un ensemble da camera anziché nelle loro forme più genuine (l’uso di strumenti estranei alla consuetudine degli organici ‘classici’ è piuttosto recente): nel nostro caso, l’arrangiamento di Beethoven prevede voce (soprano, mezzosoprano, contralto, tenore, baritono e coro) e un trio composto da pianoforte, violino e violoncello, cui talvolta si associano chitarra e oboe.

Si tratta di arrangiamenti notevoli, pervasi da una grande sensibilità, come poteva averla chi, di lì a pochi anni, avrebbe portato a compimento quel colosso che è la Nona Sinfonia e il suo coro finale ‘An die Freude’ (‘Alla Gioia’). Benché tenesse conto dell’estrazione popolare di queste melodie, il compositore tedesco impresse la sua inconfondibile orma, attento (come abbiamo visto) alle esigenze della società in evoluzione ma anche con un occhio di riguardo per la natura di quei brani (lo stesso Beethoven era di temperamento ‘rustico’ e inserì, in diverse sue opere, ritmi e melodie dal sapore spiccatamente popolaresco).

                                  

Il motivo di questa scelta è presto detto. Ciò che nei decenni precedenti poteva essere un vezzo aristocratico (e cioè mescolare accenni vagamente tradizionali nelle forme musicali imperanti, come ad esempio la sinfonia o l’opera), diventa ora una vera e propria necessità, dovuta al fatto che la borghesia trae le sue origini da strati sociali inferiori: in breve tempo essa riesce a imporsi, in maniera spregiudicata, come forza trainante di una nazione (economicamente, socialmente, culturalmente), ma il modello di vita che propone è meno raffinato, soprattutto in Francia, se rapportato a quello dell’ancient régime. Nasce quindi la necessità di doversi mettere alla pari con la cultura del periodo precedente, e ciò può avvenire recuperando le proprie origini e valorizzandole il più possibile.

                             

Non solo: proprio negli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo il Romanticismo (inteso come ideale di realizzazione ed esaltazione dell’individuo) muove i suoi primi e incerti passi, e si mescola con il nuovo gusto per la riscoperta del passato (già nel 1765 scoppia il ‘caso’ dei cosiddetti Canti di Ossian, una raccolta di poemi attribuiti al bardo scozzese ma, in realtà, frammenti di canti tradizionali rielaborati dallo stesso sedicente scopritore e curatore, James McPherson).

In un clima simile, il musicista si sente libero dagli obblighi imposti da una società e una cultura impaludate nelle ripetitive formalità della vita di corte e si esprime liberamente, secondo nuovi linguaggi, del tutto personali. La musica non è solo intrattenimento stanco per nobili orecchie distratte, ma diventa un preciso veicolo di messaggi e ideali. Beethoven fu il primo ad affrancarsi dalla condizione di ‘musicista di corte’ e a muoversi in questo senso; la sua eredità spirituale fu presto raccolta da altri artisti che ne fecero un idolo: Franz Schubert, Fryderyk Chopin, Robert Schumann, Franz Liszt e tanti altri. Nascono molti nuovi generi, gli editori pubblicano sempre più poemi sinfonici, raccolte di écossaises per pianoforte, lieder su testi e canti popolari, ritmi all’ungherese e via dicendo. Spesso, questi ritmi si trovano innestati in forme già consacrate: la sonata, la sinfonia, il concerto traggono sempre di più ispirazione e nuova linfa dalla cultura musicale tradizionale.

                        

       

In un periodo turbolento come la prima metà dell’Ottocento, questo è anche un modo di veicolare ideali rivoluzionari, come nel caso di Chopin e delle sue Polonaises. Ancor più eclatante, per quel che ci riguarda, è il caso di Felix Mendelssohn, il quale compone un’ouverture per orchestra intitolata ‘Le Ebridi, o La Grotta di Fingal’ e dà alle sue sinfonie dei sottotitoli che parlano da soli: ‘Italiana’, ‘Scozzese’ e così via.

           

  

Le scottish songs rielaborate da Beethoven avevano già subito un primo arrangiamento in quegli anni, o poco prima. I più popolari poeti dell’epoca, Robert Burns e sir Walter Scott in testa, avevano scritto delle poesie sulle melodie di antiche ballate: Beethoven ne raccolse diverse e ne fece l’ossatura per la sua opera. Oltre ai loro, il compositore prese e riadattò anche testi (tra gli altri) di Joanna Baillie, William Hamilton, Lord Byron e James Hogg, per un totale di 46 canzoni.


Naturalmente, questi canti fanno tuttora parte del repertorio di artisti e gruppi della scena folk anglo-celtica. Noi faremo una breve carrellata su alcune di queste melodie, passate poi, attraverso un’ulteriore fase di arrangiamento, nell’ambito della musica per Great Highland Bagpipe. E lo faremo confrontandole con alcune esecuzioni moderne di indubbio valore artistico e musicale. Intendiamoci: le rielaborazioni ottocentesche non riguardano solo la melodia, ma anche l’accompagnamento: sono armoniche, non solo melodiche. Il che significa che una prima, grossa differenza è dovuta alla presenza di un accompagnamento variegato, che solitamente, dietro una bagpipe, semplicemente non c’è.


Cominciamo dal ‘classico dei classici’, ‘Auld Lang Syne’ di Robert Burns. Diverse pipe band eseguono la melodia su cui si basa il testo del poeta di Alloway, e sempre si trova un che di cerimoniale. Non a caso, si esegue in parata o si incide in cd e dvd di carattere, per così dire, ‘divulgativo’. Beethoven non si discosta da questo clima, né poteva farlo, visto il testo: ma per l’epoca era una novità. Si può dire, anzi, che la popolarità del ‘Valzer delle Candele’ abbia avuto grande impulso proprio grazie alla versione beethoveniana.

Oggi ha assunto, per il grande pubblico, lo stesso valore della ‘Radetzky-Marsch’ al Concerto di Capodanno di Vienna. Difficilmente si trova inserito in un contesto concertistico puro e semplice; quasi mai un piper solista lo inserisce in repertorio.

Andiamo avanti, e cambiamo atmosfera. ‘Sir Johnnie Cope’ reca, nell’edizione a stampa per voce e complesso da camera, l’indicazione ‘Marcia. Allegretto spiritoso e semplice’. E, in effetti, di marcia si tratta. Ma, rispetto, ad esempio, all’interpretazione del 1st Battalion The Black Watch, l’andamento è diverso: perde la cadenza propria della marcia e si veste in giacca da camera. La sorpresa si nasconde nel finale: è come se Beethoven avesse voluto avvolgerla di mistero, con una cadenza che in realtà non conclude il brano, ma sembra lasciarlo sospeso, come un enigma irrisolto.

Un caso a parte è costituito da ‘Glencoe’: non è la rielaborazione della air ‘The Massacre of Glencoe’ (ancora una volta, ci basiamo su un’esecuzione del Black Watch, tratta da ‘The Ladies from Hell’), né ha qualcosa a che vedere con il pibroch (vedi Gordon Duncan in ‘Just for Seumas’). È… un’altra cosa, tanto più interessante in quanto presente in due raccolte. Il musicista tedesco la rielaborò, infatti, due volte: la prima, in la minore, venne inserita nella raccolta WoO 152, la seconda, in do maggiore, nella raccolta WoO 156. Quest’ultima si svolge, quasi distaccata dagli avvenimenti descritti, come se si trattasse di un evento ormai lontano nel tempo e consegnato alla Storia, ed è affidata a un terzetto soprano-tenore-baritono (con tutto quello che ciò implica in termini di arricchimento della struttura polifonica del canto); la prima versione, invece, è il racconto di un fatto di cronaca, appartenente al tempo di chi la canta. E il tenore assume il ruolo di commosso cantastorie, che si impossessa della notizia, la elabora e, in tono accorato e sofferto, ne fa partecipi gli ascoltatori.

‘Highland Laddie’ ci trasporta in un’atmosfera del tutto diversa. I versi sono di James Hogg, lo stesso autore del testo sulla marcia ‘Teribus’; l’aria, così come rielaborata da Beethoven, saltella spiritosa sui versi che raccontano di Waterloo (un altro fatto di cronaca, in fondo): e non poteva essere altrimenti, talmente è ricca di parole in dialetto scozzese, familiare nel tono, fortemente ritmata nella metrica. Curiosamente, l’esecuzione di confronto scelta è decisamente meno spigolosa: così risulta la voce di Isla St. Clair (‘The Lady and the Piper’), ma soprattutto diverse sono le parole. Stranamente, la St. Clair adotta un testo diverso da quello adottato da Beethoven.

L’ultimo brano esaminato è ‘Highland Harry’, che possiamo sentire eseguito dalla pirotecnica bagpipe di Gordon Walker durante il McLeod Memorial Competition (‘World Masters of Piping’). Il pluridecorato Gordon lo esegue come va eseguito, con il suo ritmo baldanzoso, tanto più che viene inserito in un set di March, Strathspey & Reel molto sostenuto. L’ ‘Allegretto spiritoso’ rielaborato da Beethoven è irriconoscibile: è pervaso da un senso di ansia e di tensione che non si scioglie nemmeno alla fine – anzi, forse solo alla fine, ma per tutta la sua durata non si riscontra un solo elemento riconducibile allo strathspey per cornamusa (a partire dalla tonalità di re maggiore). Ha invece tutte le caratteristiche di una vera e propria aria da concerto, nonostante fosse concepita per un accompagnamento di pianoforte, violino e violoncello e non per orchestra.


Beethoven si prodigò per diffondere la musica di estrazione popolare, non solo tramite le sue raccolte di canti. Un caso citato spesso nei libri di storia della musica è rappresentato dalla Sinfonia n. 6 ‘Pastorale’, il cui terzo movimento è una festosa danza paesana (non più, quindi, un minuetto, che già aveva archiviato anni prima e che riesumerà soltanto in occasione della Sinfonia n. 8 con intenti scherzosi e nostalgici insieme). In tutta la sua musica si avverte un sentire schietto come il buon vino, sia che sprofondi negli abissi della Quinta Sinfonia o della Sonata ‘Appassionata’ (titolo già espressivo di suo), sia che voli sulle note del citato ‘Inno alla Gioia’, sia ancora che descriva le ‘Sensazioni all’arrivo in campagna’ della ‘Pastorale’. Per noi, inaspettatamente, si schiude un piccolo tesoro fatto di brani traghettati, attraverso i mille sentieri della storia, alla nostra bagpipe, sui quali si è posata, due secoli fa, l’attenzione di uno dei massimi geni che la musica di ogni tempo e di ogni paese abbia mai avuto.

Nota:
per l’analisi dei canti nell’elaborazione di Beethoven si è fatto riferimento all’incisione delle opere complete, edita dalla Brilliant Classics nel 2007.