COME HO IMPARATO A SUONARE – di Donald MacPherson

Il nostro “Forum” negli ultimi giorni è stato agitato da acque mosse !
 Sarà stato l’effetto del vento dell’
America’s Cup ?

Questo testo è dedicato agli aspiranti piper e ai novizi.

Il grande Donald MacPherson (mi auguro sappiate di chi si sta parlando!) si racconta con grande umiltà e semplicità.

Il testo originale è inserito nel Book a corredo del CD “A Living Legend” edito dalla Siubhal (Barnaby Brown).
Questa è la traduzione in italiano a suo tempo curata da Alberto Massi per l’inserimento (mai più avvenuto) nel medesimo Book
.


Come ho imparato a suonaredi Donald MacPherson

L’insegnamento che ho ricevuto potrei descriverlo in modo più appropriato come uno stile di vita.

Mi ritengo particolarmente fortunato perché il mio insegnante è stato mio padre, Iain. E’ stato il mio primo ed unico maestro, e stando continuamente a stretto contatto con lui ho potuto prevenire lo sviluppo di ogni difetto, mentre per altri allievi sarebbe stato necessario attendere il giudizio dell’insegnante alla lezione successiva. Mio padre era stato un piper nell’esercito durante la Prima Guerra Mondiale e successivamente si era recato dal grande John MacDougall Gillies per ricevere ulteriori insegnamenti. Nel 1920 era stato membro fondatore della Scottish Pipers’ Association, della quale Gillies era stato eletto presidente.

Mio padre non prese parte a molti concorsi ma conservo un ritaglio dal quotidiano Oban Times del 1924, una cronaca relativa ad un concorso per la “Gold Medal” (uno dei più importanti), nel quale è scritto che Iain MacPherson “stava suonando Big Spree in modo eccellente, quando ha commesso un lieve errore ed ha smesso di suonare“.
Ebbe una carriera musicale breve, a causa di un incidente sul lavoro che danneggiò una delle mani.
Al tempo avevo solo cinque anni ma ricordo chiaramente il senso di silenzio che piombò sulla mia casa, perché egli da quella volta suonò molto di rado.

Il mio ricordo più lontano di me stesso come piper mi rimanda a quando avevo 12 anni.
Fui trasferito dai Life Boys alla Boys Brigade (organizzazioni simili a Lupetti e Boy Scout), che aveva una pipe band. Mio fratello Iain, di due anni più vecchio, era già nella banda.
Fu questo l’episodio che fece rinascere in mio padre l’interesse per la cornamusa. Mi permise di entrare nella banda, ma naturalmente ancora non avevo una cornamusa per suonare.
Mi ricordo ancora uno degli ufficiali della Boys Brigade che si mise a raccogliere pezzi di cornamusa a destra e a manca per ricavarne una che fosse anche di piccola taglia, adatta a me; alla fine ci riuscì, e mi donò la mia prima cornamusa, completa di una vecchia pelle di pecora come sacca, coperta da un panno sdrucito, un cordone verde e qualche ancia consumata.
Io mi sentivo al settimo cielo tornando a casa con la mia “nuova” cornamusa, ma mio padre non mostrò altrettanto entusiasmo quando aprì la custodia e vide quella mostruosità…

Così, il giorno dopo andammo da Peter MacNicol, il costruttore di ance, che me ne fornì alcune adatte alla mia piccola cornamusa. Abitava vicino a noi, e di lui ricordo ancora la gentilezza e la disponibilità. Poi mio padre mi comprò una sacca nuova da Peter Henderson. Lì lavorava come manager il Pipe-Major (il capo di una pipe band) Archie MacPhedran, che propose a mio padre di farmi suonare nella Glasgow Shepherd Pipe Band qualora fossi riuscito ad imparare.
Fu allora che mio padre mi disse che se davvero volevo essere un piper, dovevo imparare a suonare correttamente, o altrimenti rinunciare.

Guardai poi mio padre mentre sostituiva la sacca. Dapprima segnò sulla sacca nuova la posizione che avrebbero dovuto avere gli stocks (le parti cilindriche in legno da fissare alla sacca su cui poi si montano i tre drones, o bordoni, le canne a suono fisso n.d.tr.), poi con un coltello affilato vi praticò dei tagli a stella dai quali fece passare gli stock, che in seguito legò con un filo ben cerato.
Mi ricordo ancora bene cosa usò per trattare il filo: cera da ciabattini, resina e un po’ di vasellina.
Invece, per impermeabilizzare la sacca utilizzò una mistura di farina, zucchero, acido borico ed acqua, scaldata fino a diventare una pasta. Questa mistura teneva la sacca asciutta ed impermeabile, ma mio padre mi avvertì che se avessi lasciato che si seccasse, si sarebbe di nuovo solidificata attorno all’ancia del chanter (la canna forata che esegue la melodia n.d.tr). Qualche anno dopo ciò avvenne realmente, poco prima di suonare per un concorso ad Oban. Con cura però riuscii a togliere l’ammasso solidificato e trovai pure nelle vicinanze un rubinetto per pulire l’ancia. Fui davvero fortunato!

Mio padre mi insegnò anche a testare le ance, da bordone e da chanter. Per le prime avrei dovuto inserirne una nel bordone per farla suonare; poi, soffiando più forte, essa avrebbe dovuto bloccarsi. Se ciò era impossibile, occorreva aggiustare con cura il grado di apertura della lamella agendo sulla legatura. Se invece, una volta bloccato il suono, dell’aria continuava ad uscire dall’ancia, essa doveva essere scartata, perché avrebbe causato perdita d’aria durante l’uso dello strumento. La lamella doveva avere una certa consistenza, e riguardo a questo avrei in seguito imparato altre cose, così come la tecnica dei mezzi colli per rifare la legatura sull’ancia.
L’ancia del chanter doveva invece avere un suono gracchiante se suonata fuori dal chanter stesso, non presentare angoli rotti o tagli nelle lamelle, non essere né troppo dura né troppo morbida.
Mio padre mi ricordò che non c’è piacere senza pena!
Poi fece le legature sulle giunzioni dei bordoni, mise definitivamente a posto le ance e mi riconsegnò quello che finalmente era uno strumento di qualità.

Quando tornavo a casa dagli incontri con la Boys Brigade dovevo riferire a mio padre i brani che dovevo studiare, e da lui ricevevo accurate istruzioni su di essi, in modo tale che fossi sempre pronto per l’incontro successivo.

Non solo: egli si occupava di ogni dettaglio della mia formazione tecnica, a volte in contrasto con le indicazioni suggeritemi dal Pipe-Major della banda. Ad esempio, quest’ultimo suonava il C (nel sistema inglese di notazione si parte da A, il nostro LA, e si arriva a G, il SOL n.d.tr) senza coprire il foro Low A col mignolo, e teneva il foro F chiuso mentre suonava un High A, ma mio padre mi disse come avrei dovuto suonare queste note correttamente. Egli preferiva il throw on D (una tecnica di abbellimento n.d.tr) nello stile open (con la D gracenote su C n.d.tr) piuttosto che closed (grip su C n.d.tr), che invece era il modo in cui questo abbellimento mi era stato insegnato. Infine, seppe insegnarmi come sottolineare adeguatamente la High G gracenote nell’esecuzione di un doubling (altro abbellimento n.d.tr) di High A. Io ho poi applicato queste tecniche nella musica leggera quanto in quella classica, e da allora le ho sempre utilizzate.

Mio padre teneva sempre sulla tavola il libro di Angus MacKay , qualche altro volume e vecchi manoscritti, dai quali trasse il mio primo piobaireachd, MacDonald of Kinlochmoidart’s Lament No.1. Egli suonò la prima frase sul practice chanter (il flauto per l’allenamento n.d.tr) ed io dopo di lui. Poi si passò alla frase successiva, quindi all’intero primo rigo, fino alla fine dell’ ùrlar, e così via fino alla fine del brano.
Qualche frase non era esattamente suonata come lui voleva, ed egli la ripeteva ed anch’io dovevo ripeterla. Se ancora non si raggiungeva il risultato, me la cantava.
Non usava il canntaireachd 
1 (pron.: càntroh n.d.tr) dei MacCrimmon o di Campbell, ma, credo, un misto, assieme a cose sue proprie; io comunque capivo esattamente cosa voleva.

Ricordo che mi disse di non disturbarlo finché non avessi mandato a memoria l’intero brano. All’epoca mi aveva già insegnato a suonare le variazioni più complesse, Taorluath e Crunluath 2, e non ci misi molto a memorizzare tutto il pezzo; allora mi affrettai da mio padre per farglielo sentire. Lui rise di cuore per la mia fretta e per la mia presunta ingenuità ma volle ascoltarmi comunque, e rimase davvero molto stupito quando si accorse che, tranne qualche dettaglio, avevo davvero imparato il brano. Era passata soltanto mezz’ora!

Nel 1938, quando avevo 15 anni, egli cominciò a prepararmi per i concorsi che si sarebbero tenuti ai Cowal Games di Dunoon. Decise di farmi studiare Lament for the Only Son, di nuovo da un manoscritto. In seguito, mentre eseguivo il brano alla cornamusa, mi fermò due o tre volte, insistendo su alcuni passaggi, ed io, piuttosto infastidito, protestai dicendogli che era impossibile riprodurre sullo strumento ciò che lui mi cantava a voce.
 ““, mi rispose, “ma questa è la “poesia” che devi cercare di mettere dentro alla tua musica“. A Cowal vinsi negli juniores il March, Strathspey & Reel il venerdì ed il Piobaireachd negli under 18 la mattina dopo.

Quella fu la mia prima competizione.


1 il canntaireachd (pron.: càntroh), è il codice vocale attraverso il quale i piobaireachd venivano trasmessi oralmente da maestro ad allievo. Si usa in pratica un sistema simile ad una poesia, che in realtà mima attraverso gruppi di lettere i diversi suoni della cornamusa. Si veda l’esempio a pag. XX.

2 Questi sono i nomi delle due variazioni finali di gran parte dei pibroch. Altrove nel testo vengono denominati taobhludh e crunnludh, poiché quest’ultimi sono stati recentemente accettati come maggiormente aderenti al significato originale.