Questo cd, come si è visto da vari messaggi nel forum, è piaciuto. E, obiettivamente, bisogna dirlo: piace.
Perché ha avuto tanto successo? I motivi sono tanti, e vari.
Innanzitutto, ovviamente, il livello del piper: Michael Grey è senza dubbio uno dei maggiori musicisti del mondo: lui, canadese, che ha già al suo attivo tanti premi e la fondazione della prestigiosa 78th Fraser Highlanders Pipe Band (Bill Livingstone è stato uno dei suoi maestri), si è ormai imposto nella scena mondiale nonostante la giovane età.
Non solo come esecutore, ma anche come compositore: ha raccolto i suoi tunes in cinque libri (finora) e ha pubblicato sei cd (finora).
Già, finora. Perché le sue doti sono tali da renderci sicuri della comparsa di altre valide pubblicazioni in un prossimo futuro.
L’ultimo album pubblicato, ‘Shimla Hum’, è stato il ‘cadeau’ che noi partecipanti allo scorso Gathering abbiamo trovato nel kit di partecipazione. Tavarnelle, oltre ad aver segnato il primo ventennio di vita del BIG, è stata anche l’opportunità per conoscere un nuovo modo di approcciarsi alla Great Highland Bagpipe, dopo aver avuto l’esperienza degli ospiti delle altre edizioni. E l’approccio di Michael è innovativo rispetto al ‘classico’ di Roddy McLeod, o all’ ‘alternativo’ di Allan McDonald. Michael parte infatti dal presupposto che la musica, quando non è la solita paccottiglia che si sente in giro, è capace di risvegliare sensazioni altrimenti non esprimibili.
Sembra una banalità, e invece…
La musica, qualunque sia l’area geografica o culturale in cui nasce, è un’entità unica, con un’unica origine e diretta verso un unico fine: il cuore dell’uomo. Di più: il corpo intero. Ci sono strumenti molto ‘fisici’, capaci di entrare in sintonia corporea con il musicista.
Si citano spesso, a questo proposito, le percussioni; ma Michael si spinge ancora più in là. A chi ha seguito i suoi workshop durante lo scorso Gathering, non sarà sicuramente sfuggita una sua affermazione che, allora, mi colpì molto: la cornamusa imita la voce umana, in particolare la lingua gaelica. E, aggiungiamo noi, lo stesso ritmo dell’idioma segue la cadenza di uno strathspey: fateci caso.
Il senso dell’affermazione del nostro è però diverso. Ce ne accorgiamo ascoltando alcune forme di musica vocale: quella, per esempio, della tradizione pastorale sarda, basata sulla tecnica del quartetto di voci maschili chiamato ‘tenores’. Ma ancor di più (ritornando in ambito ‘celtico’), se consideriamo il canntaireachd, la forma di trasmissione orale della ceol beag: lì è chiaro che la rispondenza tra voce umana e suono della bagpipe è molto stretta.
Andiamo ancora oltre. Il canntaireachd detta la linea melodica del chanter, ma l’armonia creata dai bordoni ha un suono, uno solo: se esso manca, tutta l’impalcatura sonora viene a mancare. Come un evento primordiale, i bordoni si aprono in due low A in ottava riproducibili oralmente; la sillaba che li imita è ‘hum’. Fatelo anche voi, prolungando indefinitamente la ‘m’ finale.
Il suono continuo, ipnotico, prodotto dalla voce umana è diventato il tramite con la divinità nelle pratiche di meditazione trascendentale; come la trascriviamo noi, risulta ‘om’, ma la sostanza è la stessa. Le pratiche tibetane, e dell’ascesi induista in genere, si servono proprio della vibrazione della sillaba mistica, ossia del suono dei bordoni.
Nella mente di Michael c’è un gioco di richiami inconscio che lo porta, sulla scia dei ricordi e delle emozioni, in un luogo insospettato. Si tratta di Shimla.
Shimla è una città ai pendici dell’Himalaya, nella regione indiana del Punjab.
Cosa c’entra questo luogo con la sillaba mistica e i bordoni? A quanto pare, nulla. Ma un punto in comune, tutte queste cose ce l’hanno. ‘Hum’, in urdu, significa ‘noi’; e l’urdu è la lingua parlata in quella regione dell’India.
Le due parole hanno un senso (peraltro irrazionale) solo nell’esperienza interiore di Michael: ciò non toglie che, inconsciamente, possa stimolare delle sensazioni, ancorché prive di logica e inesprimibili verbalmente, anche in ognuno di noi.
Il cd si sviluppa come un intreccio tra musica e cultura gaelica da un lato e musica e cultura indiana dall’altro. Apparentemente, è quanto di meno ‘celtico’ si possa immaginare. In realtà non è così. La presenza della Highland bagpipe e della reelpipe è solo il tratto più appariscente; ma, a sfogliare tra le note di copertina, troviamo ben più di questo.
Tre brani composti da Michael nella terza traccia (‘Beverley’s Wedding’, ‘Fleshmarket Close’ e ‘Finbarr Saunders’) si intrecciano in una improvvisazione ipnotica, ai limiti della trance; nella quarta traccia, un’altra improvvisazione si gioca sulla voce di Jane Siberry, in un miscuglio di francese, gaelico e canntaireachd dove quel che conta è il suono e la musicalità delle parole (e ‘cornemuse’ ritorna ossessivamente, puntellandolo, sul fondo di un reel suonato a velocità indiavolata); le cinque tracce successive dispiegano un pibroch composto anch’esso dal nostro amico, ‘Salute to Pipe Major Reay Mackay’: e non poteva mancare, dato che la musica classica indiana si basa sul ‘raga’, il corrispettivo asiatico del pibroch, ossia un tema seguito da variazioni progressive costruite sulla melodia di partenza.
I legami tra le due culture non sono finiti. A Toronto vive una comunità di asiatici. Così, in loro onore, la voce di Farid Khan interviene in un canto che anche noi ascoltatori possiamo accompagnare, magari a mezza voce. Anche se verrebbe voglia, in realtà, di cantarlo a gola spiegata e danzarlo.
Così, quello che può essere etichettato (secondo una convenzione a volte insensata) come ‘musica celtica’ diventa un abbraccio tra due mondi lontani ma molto simili, dove una musica senza tempo né spazio, una musica dell’anima si apre la strada dalle orecchie al cervello al cuore, fino a raggiungere la sua meta più profonda e nascosta, prendendola per mano e illuminandola. E allora, anche noi occidentali del XXI secolo scopriamo la bellezza del semplice e puro fluire di suoni, e di ciò che essi celano e svelano.
Ecco perché questo album piace.