CON I PIEDI FORTEMENTE POGGIATI SULLE NUVOLE


Ecco,
la Spring School è finita. Abbiamo imparato molto, ci siamo divertiti molto. Come al solito. Ma quest’anno non è stato come gli altri. È avvenuto qualcosa di profondamente diverso, ma è possibile spiegare, o anche solo descrivere, una sensazione che continua a lavorarti dentro ancora parecchi giorni dopo la fine del corso?

Mai, nelle altre edizioni, ci eravamo sentiti così affiatati con in nostri tutor, tanto da cantare e ballare con loro; mai il rapporto insegnante-allievi era stato così produttivo, mai quei ragazzi erano stati così disponibili e (devo dirlo?) efficienti nel condurci tra i segreti del piping. Capite bene, abbiamo avuto quanto di meglio potessimo ottenere: essi appartengono a una categoria speciale; dopo di loro ci sono tutti gli altri.

Come è cominciata? Quasi senza grosse aspettative. O meglio, so che, potendo approfittare solo due volte l’anno di un corso ben strutturato, avrò quella scossa che mi permetterà di andare avanti nello studio. Capirò quali sono i punti deboli e dove, invece, vado meglio; saprò cosa curare nella tecnica e fino a quali limiti potrò spingermi nel repertorio. Sono sempre partito con queste idee in mente. E poi, naturalmente, con la consapevolezza di passare sei giorni in serenità con gli amici, lavorando ma con i giusti tempi, sbagliando ma senza il timore di essere giudicato un inetto.

Quasi tredici ore di viaggio complessive, più due e mezza in attesa della coincidenza. Finalmente, alla stazione, l’auto arriva: il nostro grande boss Duilio ha avuto la gentilezza (ma non è un semplice dovere di cortesia, lui è veramente così) di venirmi a prendere. Scende, ci salutiamo, scende anche Amanda. È la prima allieva ad essere arrivata, il giorno prima. Poche parole, lei non conosce l’italiano e deve ancora ambientarsi; ma quelle parole hanno tutto il sapore della sua terra d’origine.

La mattinata scivola via tranquilla, tra le vie del centro storico. In fondo non abbiamo mica cominciato: il primo istruttore, Rory, arriva nel pomeriggio. Abbiamo tutto il tempo per un pranzo eccellente e altre due chiacchiere, senza fretta. Poi, in aeroporto. Il tempo sembra volersi adeguare ai nostri ritmi: anche il ritiro dei bagagli avviene placidamente. Il grosso degli studenti arriverà tra poco, ma sappiamo di avere ancora tempo sufficiente per entrare nell’ottica del corso.

Torniamo in albergo. Finalmente, dopo un anno, li ritrovo! Ci raccontiamo tutto quello che è successo nel frattempo, chi si è esibito in chiesa e chi ad un Highland wedding – ci radiografiamo, per le tante domande e per la tanta voglia di rendere partecipi gli altri delle nostre esperienze solitarie.

Perché è così. Siamo piper, è vero, ma piper isolati in un territorio vastissimo. La Scozia sta tutta tra Palermo e Roma, lassù è molto più facile incontrarsi, studiare, avere occasioni per suonare. Qua, no. E poi, non siamo professionisti: il lavoro assorbe parecchio del nostro tempo, siamo limitati in tutto. Ecco perché queste sono occasioni preziose.

Finlay coordina il gruppo dei tutor: Struan, un Oliver  Hardy che gli mancano solo i baffetti; Craig, faccia di gomma alla Mr Bean; Laura, graziosa e agile ballerina; Steven, già pronto per diventare il nuovo Gordon Duncan. Quando arrivano, ci trasferiamo in pizzeria. Una cosa molto italiana, ma noi sappiamo renderla profondamente nostra: intoniamo il brindisino, un rito che ormai ha valicato i confini atlantici. Il corso ha ufficialmente inizio.

Dalle prime lezioni, l’indomani mattina, capiamo che le cose non andranno come al solito. I ragazzi scozzesi non si limitano a dirci: suoniamo questo pezzo; ci dicono come farlo, cosa dobbiamo avere in mente, ci accompagnano con il canto mentre cerchiamo di inseguire le note con il practice. Riescono a tirare fuori da noi cose inaspettate. Noi studenti ci sentiamo già un passo avanti, perché ci fanno capire che possiamo fare quel passo, che anche l’ultimo arrivato è capace, se vuole. E noi vogliamo. Siamo un’unica grande mente che cresce, non importa se nell’interpretazione del Clan Campbell’s Gathering o nell’esecuzione di un doubling pulito. Capiamo cosa voglia dire affrontare la musica, entrarci dentro, comprenderla.

Tutti i giorni di studio saranno così. Quei pochi, minimi intoppi che si presentano si risolvono con facilità. Non sembra possibile, ma tutto fila liscio, l’ingranaggio è perfetto, le giornate scivolano senza sentire la perdita di sonno per chi tira tardi la sera davanti a una birra o quando una serata al pub si prolunga un po’ più del previsto. Ma ne vale la pena. Nessuno è isolato, si chiacchiera, si ride, si canta, si suona, si balla: Struan mi afferra, rischio di volare via mentre danziamo. E quando siamo noi a suonare, l’apprezzamento degli ospiti è caloroso – e si fa sentire.

La messa a punto degli strumenti è un momento fondamentale. Spesso abbiamo ancora bisogno di una mano da parte di chi è più competente di noi. Non riesco a regolare una delle ance dei tenori; Rory la guarda, la prova, si accorge che è completamente andata: non c’è più modo di settarla decentemente. Pensa di sostituirla con una delle sue… ed è un altro sentire, ma bisognerebbe cambiare anche l’ancia dell’altro tenore, per equilibrare il suono. Detto, fatto. Mantengo quella del basso, ma Rory mi dà tutto il set: potrebbe servirmi anche quella, dice… Cerco di schermirmi, poi te le ridò, provvederò a far sistemare quelle vecchie… niente da fare. Quanto ti devo, amico mio? Fa un gesto con la mano, come dire: omaggio della ditta. Gli offrirò da bere l’indomani.

La competition viene preparata con cura meticolosa. Sappiamo che non ci giochiamo la carriera, ma siamo lo stesso emozionati. La salivazione si azzera, il caldo nella stanza fa brutti scherzi alle ance, l’ansia si può quasi vedere. C’è chi cede, ma sappiamo che non mollerà mai, anche quando, sul momento, decide di non frequentare più. Loro, i quattro giudici, sono freschi come quarti di pollo, seguono con attenzione anche se non sembrano scomporsi più di tanto. I giudizi che ci danno sono sintetici ma precisi sulle nostre potenzialità.

Presento solo una slow air & jig. È poco, ma sento che il fiato non mi basterebbe ad affrontare anche altri brani. Tutta la seconda parte di Glasgow City Police Pipers è una sequela di note e silenzi, di riprese e di sbuffi. Finlay mi suggerisce la soluzione per rimediare al problema: more porridge! Niente interventi sullo strumento, niente regolazione delle ance, niente seasoning: more porridge.


Il giorno dopo, tocca ai ragazzi prepararsi per il concerto pubblico. Andiamo tutti in trasferta, lo spettacolo si tiene in una cittadina distante un’ora di macchina: una ridente cttadina di montagna, chiediamo dove sia il centro storico agli abitanti che incontriamo (stentiamo a credere, vedendo il teatro quasi pieno, che siano più di tre) e loro ci rispondono: è questo qui. Strano, questo ridente paese. Passeggiamo. Si parla delle sensazioni suscitate dagli odori e da squarci improvvisi di paesaggio che si aprono davanti ai nostri occhi.

C’è bisogno di braccia per far sì che il pubblico gradisca il concerto, e anche per raccogliere armi e bagagli alla fine. Ci offrono un rinfresco, ed è in un baretto che ha la pretesa di chiamarsi ‘caffè letterario’, che facciamo mezzanotte. Sì, è decisamente un paesino strano.

Il giorno dopo è l’ultimo giorno. Almeno per molti di noi: qualcuno è costretto ad andarsene di mattina, altri appena dopo il pranzo. I nostri ospiti resteranno ancora fino all’indomani o martedì, per assistere al workshop sulla zampogna. Io ho ancora un po’ di tempo prima di prendere il pullman per il ritorno: altre tredici ore di viaggio, esclusa la sosta per il cambio. La mattina sembra passare mollemente, ma ogni cosa, alla fine, si riveste di un’emozione particolare. Ho un favore da chiedere a Finlay: il titolo di quella march che ha suonato al concerto l’anno scorso, quando torno a casa lo cerco su internet…

Ma dài, vuole un foglio di carta per scriverlo, poi mi fa sedere e lo studiamo insieme, ma non solo noi due, anche Rory si siede accanto a noi e suona… è un piccolo gesto in fondo, ma spiega molte più cose di quanto possa sembrare a prima vista.

Il pranzo, la consegna di targhe e gagliardetti, i saluti di chi deve andare. Già, i saluti. Sento che sarà dura, ma non intendo lasciarmi prendere dall’emozione. Ci scherzo su. Abbraccio tutti i ragazzi, Steven, Craig, Laura e Struan; abbraccio Rory; Finlay mi stringe e mi solleva da terra: certo non è usuale tra due che si  sono visti solo due volte nella vita, e a distanza di un anno. Ma tant’è.

Mi riservo di salutare Amanda per ultima, e di dedicarle gli ultimi minuti prima di andare. Facciamo due passi, la giornata non è delle migliori, ma non importa. Si parla delle nostre speranze, dei nostri progetti, di cosa il piping rappresenti nella nostra vita.

Torniamo in albergo nel momento in cui Duilio ne esce per sistemare le sue cose in auto. Mi accompagnerà alla stazione prima di sbrigare alcune sue faccende. In questo modo, la fine si ricollega all’inizio. Abbiamo ancora il tempo per un ultimo, lungo abbraccio silenzioso e per l’augurio di rivederci presto.

Ora si riparte, avrò tutto il tempo per avere nostalgia.

 

 

 

Il rientro significa il ritorno alla vita normale, alla routine di ogni giorno, ai nostri piccoli e grandi problemi, alle nostre piccole e grandi gioie. Ma mai come ora ne ho sentito il peso. Vuoto, sgomento e tristezza mi hanno assalito subito; ancora adesso mi accompagnano. Dovrei riprendere in mano il lavoro, dovrei dedicarmi a quell’impegno civico che nel mio piccolo aveva cominciato ad appassionarmi. Ma non è possibile! Lo sento, la vita è cambiata, tutto sembra stupido, fuori luogo, fastidioso; ho una percezione diversa della realtà; mi sento, come diceva quel geniaccio di Ennio Flaiano, con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole – e non intendo più scenderne.

Roch the wind in the clear day dawin’… questa musica mi accompagna sempre. Insieme a Donald McLean’s, è il tune che è stato eseguito più spesso. Mi riporta a quello stato d’animo di fierezza e nostalgia che mi ha sempre suscitato il suono delle cornamuse: fierezza perché è pur sempre una marcia, nostalgia perché, cantata dai nostri amici e con un andamento più melodico, ricorda qualcosa che abbiamo perduto; qualcosa a cui ognuno di noi spera di ritornare, un luogo o uno stato d’animo, possiamo interpretarla come vogliamo. Questo suono è diventato lo sfondo sonoro su cui la mia vita, d’ora in poi, si muoverà. Oddio, magari nel frattempo continuerò a sentire Chopin o Eugenio Finardi; ma la bagpipe è sempre lì, pronta a ricordarmi un’interiorità possibile, capace di coesistere senza conflitti con la realtà quotidiana.

Tengo i contatti con tutti via internet. È una diavoleria a volte necessaria, se si vuole continuare a sentirsi vicini e a non disperdere il capitale umano acquisito in così poco tempo. Ancora adesso c’è chi si ricorda di questa esperienza, e ne parla, e ne fa partecipi gli altri amici in rete.

Questa rete, penso, aiuta a connetterci nello spazio; ma sono convinto che su di noi ha agito qualcos’altro. L’amicizia è l’elemento che rinforza ancora di più la passione, la rende più viva, fa aumentare ancora di più il desiderio di proseguire. Sulla nostra strada abbiamo trovato, ogni volta, talenti eccezionali. Quest’anno, abbiamo trovato anche cinque splendidi amici; l’esperienza della settimana trascorsa insieme deposita nella mia, nella nostra mente i ricordi e le emozioni, mentre continuiamo a scriverci.