ARMANDO IL PELORITANO

Armando è il tipico esponente del piping italico alle prese con l’apprendimento della cornamusa. Ha voglia di approfondire le sue conoscenze in merito e, per far questo, non si tira indietro (potendolo fare) di fronte alle proposte, alle esperienze e alle avventure capaci di farlo progredire – o anche solo di dargli un minimo di soddisfazione. Probabilmente molti di voi si identificheranno col personaggio, le cui vicende sono assolutamente reali, così come le persone che incontra e conosce. Sulla sua reale identità e sulla sua collocazione geografica, beh, non c’è molto da starci a pensare…

… e quando tutto sembrava già definito, quando ogni dettaglio pareva essere stato tenuto in considerazione, quando mancava appena un giorno all’incontro, la risposta più ovvia alla più ovvia delle domande non poteva che essere

– Nessuno di noi lo sa, ci verrà detto all’ultimo momento.

La più ovvia delle domande era: dove suoneremo? Un’altra domanda, che in quanto a originalità non ci scherza, è

– Dove ci incontreremo?

Risposta:

– In un posto che si chiama Mesauna.

– Ah, Messina vuoi dire. In quale albergo?

– Aspetta che mi informo e te lo dico.

Questo è stato il dialogo via internet intercorso tra Armando e il band manager della Mid South Highland Pipes and Drums, il giorno prima della loro partenza per Catania da Londra. Armando conosceva John, la figlia nonché pipe major Iona e il drum major Ronnie perché un anno prima erano scesi in Sicilia per un tour di sette giorni; e da allora erano rimasti in contatto perché il tour doveva ripetersi. La cosa che lo faceva infuriare (per quanto Armando potesse infuriarsi, visto il suo carattere bonario e mite) era la mancanza di informazioni riguardo l’organizzazione dell’evento. John non gli diede nemmeno il nominativo dell’organizzatore. In definitiva, non sapeva dove e quando avrebbero suonato.

Si sentiva a disagio. John gli chiese se aveva una macchina: in fondo, risiedendo in Sicilia, Armando non avrebbe avuto problemi a seguire il pullman della band e a tornare a casa per la notte… se non fosse per i centottanta chilometri che avrebbe dovuto fare ogni giorno all’andata e altri centottanta al ritorno, e per tutti quelli che avrebbe dovuto fare inseguendo il pullman. Insomma, gli sembrò di essere vagamente preso per i fondelli.

– Senti, facciamo così. Io vi raggiungo a Catania, all’aeroporto, poi ci trasferiamo tutti quanti a Messina.

– Vedo se Ronnie può fare qualcosa per te.

Avete capito: Armando si era accodato al gruppo con entusiasmo, e si sentiva poco considerato: si rese conto di non essere neanche stato inserito nel numero dei componenti. In compenso, si era spolmonato per imparare i loro tunes e aveva messo da parte quelli che il suo maestro gli aveva dato da studiare. I sensi di colpa erano alle stelle.

Almeno in parte, l’indomani le cose parvero appianarsi. All’aeroporto incontrò i membri della band; rivide alcuni di coloro che aveva conosciuto un anno prima e conobbe Enzo l’organizzatore, un messinese che gli parve un lestofante. Inizialmente non capì bene il discorso che gli faceva:

– Ascolta, devi fare finta di essere inglese: io sto presentando la banda come composta esclusivamente da scozzesi, altrimenti le amministrazioni mi fanno un sacco di casini. Meno puoi parlare e meglio è.

Poi gli disse che uno dei componenti della band si era defilato all’ultimo momento, per cui la presenza di Armando aveva quanto meno risolto il problema del numero per quanto riguarda la prenotazione alberghiera e la ‘consistenza’ del gruppo stesso, mettendo al riparo l’agenzia organizzatrice da ogni evenienza spiacevole.

Sul fianco del pullman che li avrebbe portati in giro vide la foto che propagandava il ‘World Tour’ e lesse un’altra scritta che li presentava come “The Royal Pipe Band of the Queen Elizabeth of the Great Britain”. Pregò soltanto che nessuno dei ragazzi leggesse quella scritta, altrimenti sarebbe scoppiato un incidente diplomatico. 

L’indomani mattina avevano effettuato le prime prove, sia col practice sia con la bagpipe; il pomeriggio tutto era pronto per l’avvio del tour. La prima tappa, ufficiosa (quasi un impegno rinnovato ogni anno), era la visita a un centro di ricovero per disabili. Non andò malissimo, ma del resto avevano suonato solo un paio di set. L’impegno grosso arrivò in serata, quando si prepararono per sfilare lungo il corso della città. Eseguirono una buona parte del repertorio. Per due o tre volte suonarono Jingle Bells e l’Inno di Mameli, che secondo Armando è il più brutto del mondo, e il fatto di doverlo suonare sullo strumento che amava lo infastidiva parecchio.

Tutto sommato, però, la serata non fu spiacevole. L’unico problema era la fatica che doveva fare per suonare, ma, rifletté, non avendo suonato per qualche giorno a causa del raffreddore, non poteva aspettarsi altro. Ci avrebbe fatto il callo.

Il ‘callo’ fu un dolorino al braccio sinistro che lo accompagnò per i giorni seguenti, oltre a formicolii vari e a una sensazione di sfiancamento che lo prendeva già alla fine dell’esecuzione del primo set, qualunque esso fosse. Quando, il giorno dopo, il gruppo suonò a S. Angelo di Brolo, non fece in tempo a completare il set di apertura (Corriechoillie, Teribus, Barren Rocks of Aden, Mhairi’s Wedding – tutti brani che aveva studiato anche prima di impegnarsi con John) che già non aveva più fiato per andare avanti: l’ancia del chanter si stoppava e quella del bordone tenore esterno perdeva potenza. Insomma, una faticaccia. Armando fu costretto, da allora in poi, a portarsi dei tappi per chiudere i bordoni in caso di necessità. Ma si rese conto che marciando rendeva meglio: quando si fermavano doveva fare uno sforzo molto maggiore.

L’accoglienza dei santangiolesi fu calorosa. In parte se ne fregò di quello che gli aveva detto l’organizzatore: dato che gli altri pipers non capivano niente, ed erano costretti a ricorrere a lui per dialogare con gli abitanti, si inventò di essersi trasferito in Scozia per lavoro. Perché no? Mica poteva farsi condizionare da quella situazione, da un problema che dopo tutto non era suo.

Quella sera comprese la vera natura di quella band. Gli scozzesi ‘veri’ erano solo due; molti di loro erano inglesi (magari di origine scozzese, ma non più doc), uno era gallese, un altro americano e un altro era nato nello Zimbabwe da genitori inglesi. Il problema non era semplicemente la diversa provenienza. Per forza di cose non potevano incontrarsi e provare tutti insieme, così non c’era amalgama: in poche parole, chi più chi meno, ognuno andava per conto suo. Due in particolare, sbagliavano sistematicamente tutto; e quando il drum major ebbe la pensata di ordinare l’esecuzione delle marce in 6/8 (Bonnie Dundee, The Muckin’ o’ Geordie’s Byre, Steamboat), la parata della band fu il festival della dissonanza: c’era chi sbagliava l’attacco, chi si scordava di ripetere la prima parte e andava direttamente con la seconda o non finiva il brano e attaccava quello successivo… insomma, una torre di Babele che costrinse Ronnie a chiudere il set anzitempo. Quella fu, pensò Armando, la prova finale che non si trattava di una band ma di un’armata Brancaleone messa su alla come viene viene, dove il vaidopismo era la regola fondamentale.

Se ne accorse già all’inizio, quando John non si curava più di tanto né dell’esecuzione in sé né dell’accordatura dei bordoni. Ah, pensò, se Alberto, il mio maestro, fosse qui, quante randellate nelle gengive avrebbe dato a tutti!

Il pomeriggio successivo, a Bronte, non ci fu lo stesso afflusso di pubblico, ma la mangiata a base di panettone e pandoro (la terza) ci fu comunque. Armando cominciava ad averne abbastanza delle tre esecuzioni di Inno di Mameli e Scotland the Brave, dove Ronnie, con gli stessi identici gesti, invitava le persone a battere le mani a tempo; e cominciava ad averne abbastanza anche di The Gael, un brano che lo aveva affascinato quando aveva visto su internet un filmato sui soldati impegnati in Afghanistan con questo brano in sottofondo suonato dalle Scots Guards. Anche con questo tune il gruppo sbagliava di brutto, anche John sbagliava di brutto; anche John non teneva il tempo quando doveva eseguire un assolo. La sera, si sfogò con il suo amico Franz al telefono, anche se doveva riconoscere la simpatia dei personaggi con i quali si era unito.

L’indomani si imbarcarono per Reggio Calabria. Gli sarebbe piaciuto tantissimo rivedere i Bronzi, ma trovò il museo chiuso per restauri. Del resto, avrebbe dovuto andarci da solo, perché gli altri ragazzi non erano interessati più di tanto alla storia e all’arte locale.

Lo spettacolo, tenuto sia di mattina che di pomeriggio per il corso principale, non andò malissimo, segno che un minimo di affiatamento cominciava a crearsi. Certo, Armando sbagliò clamorosamente e, invece di girare su se stesso per riprendere la marcia in direzione opposta, uscì fuori dalla formazione per mettersi in cerchio, ma il resto cominciava ad ingranare: non ricorse ai tappi nei bordoni e il fastidio alle braccia era quasi passato.

Tuttavia c’era sempre qualcosa di storto. Il corso era stato chiuso al traffico, ma dalle traverse le macchine continuavano a transitare e passavano davanti al corteo, con sommo piacere dei polmoni; la strada, poi, era piena di alberelli e di pannelli ‘artistici’ che costringevano la massed band a dividersi in due, e capitava che dei passanti si trovassero in mezzo al gruppo. Quando si assumeva la formazione a cerchio (e questo capitò anche a Messina), c’erano sempre quelli che al figlio, alla compagna, all’amichetta dicevano

– Mettiti lì in mezzo che ti faccio la foto!!!

oppure entravano nel cerchio con la videocamera per riprendere le facce dei pipers impegnati a suonare. E a Reggio, insuperabile, un cretino (difficile pensare ad altro che a un cretino, si disse Armando, anche se il termine giusto sarebbe stato un altro) cominciò a suonare la zampogna e si infilò in mezzo a loro mentre Ronnie e John decidevano il set da eseguire.

Armando tuttavia si rese conto che la qualità delle esibizioni andava migliorando. Ne ebbe una conferma l’indomani, a Lipari, dove raggiunsero il massimo. La giornata era ideale, tanto da riuscire a suonare il famigerato set delle marce in 6/8 in salita per andare al municipio, dove li accolse la quinta mangiata di panettone e pandoro e dove venne suonato, per l’ennesima volta, l’Inno di Mameli con Scotland the Brave. Ma andava bene anche così; stavolta l’animo era meglio disposto, e poi Lipari era così grazioso (il paesino, intendo) che anche gli amici stranieri, una volta tanto, ne rimasero affascinati.

Armando era un po’ fiero dell’Highland dressing: non negava di provare un certo piacere nell’indossare il kilt e di andarsene in giro. Si ringalluzziva quando lo guardavano, con la cornamusa in mano, il glengarry calato in testa e tutto quanto, e quel giorno si sentì davvero bene, sembrava che fosse la giornata perfetta. Durante il ritorno, il comandante del catamarano che li riportava a Milazzo lo fece salire insieme agli altri in cabina di pilotaggio e fece mettere Ronnie alla guida: fu un bel momento, al quale la performance a Messina del pomeriggio non fu in grado di aggiungere niente, sia per la brevità sia perché la band si mosse di nuovo in mezzo alle macchine e ai botti di fine anno.

Già, perché forse non ve l’ho detto, ma tutto questo avvenne tra il giorno di Santo Stefano e il due gennaio: Armando era in ferie, mollò tutto e tutti a casa e si organizzò per un capodanno diverso dal solito, una volta tanto.

In realtà, non aveva poi così tanto di diverso: la sera del trentuno dicembre i ragazzi si rilassarono con un party abbastanza modesto in albergo, dove festeggiarono due volte: a mezzanotte perché in Italia l’anno nuovo inizia a mezzanotte, un’ora dopo perché in Inghilterra l’anno nuovo inizia quando il Italia è l’una di notte. Ballarono, risero, scherzarono, suonarono, bevvero e mangiarono (indovinate cosa); per fortuna, non ci fu il trenino, quella cosa tristissima e squallida che Armando detestava quasi quanto l’Inno di Mameli.

La festicciola non durò tantissimo, l’indomani ci sarebbe stata l’ultima tappa, a Castroreale; Armando conosceva già il paese e ci tornava volentieri, ma gli sembrò che l’esibizione fosse più breve delle altre e questo gli dispiacque. Prima di tornare in albergo si fermarono a casa di Enzo e festeggiarono il suo compleanno. Quando seppe che c’era un fuori programma (degli amici dell’organizzatore gli chiesero in prestito la band per un battesimo), Armando si preparò psicologicamente come al solito: si dispose davanti la chiesa come John gli aveva raccomandato, gli chiese dei chiarimenti, soffiò periodicamente nella sacca per tenere l’ancia in caldo (per modo di dire, ovviamente, ma almeno questo gli dava l’impressione che sarebbe stata meno dura) e attese, insieme agli altri, che uscissero il pupo e la famiglia, con tanto di invitati al seguito. Il tempo però passava, e ancora la gente era in chiesa.

– State pronti, tra dieci minuti escono.

Ma i minuti diventarono venti, trenta, quaranta… quando fu chiaro che la funzione religiosa sarebbe durata almeno ancora un’altra mezz’ora Ronnie comandò lo scioglimento della formazione e il ritorno sul pullman.

L’indomani mattina i ragazzi prepararono i bagagli, lasciarono l’albergo e si trasferirono all’aeroporto di Catania; lì Armando si separò da loro, mentre il resto del gruppo aspettava l’aereo per Londra lui prese il pullman che lo avrebbe riportato a casa, pensando a quanto era diverso il modo di vedere di quei ragazzi rispetto a quello dei suoi amici italiani: un po’ più casinisti e goliardici, ma più seri quando si tratta di organizzare una massed band. Pensò a Duilio e alla sua formidabile capacità di tenere sotto controllo la situazione sin nei minimi dettagli, pensò ad Alessandro e Andrea, che tre mesi prima erano stati capaci, da soli, di creare un evento quasi da zero. Pensò alla reazione di John, Iona e gli altri quando li invitò a partecipare alla Spring School o al Gathering, e alla loro faccia inespressiva quando gli enumerava i docenti, e i tutor, e gli parlava dei rapporti di collaborazione e di profonda amicizia che si erano instaurati tra questi personaggi e il BIG, il gruppo di cui Armando era contento di far parte. E per tutto questo, non provò tanta malinconia quando si imbarcò sul pullman.