THE WAKING OF THE BRIDEGROOM

                                              

                                    

Uno dei più apprezzati pipers della scena internazionale non è scozzese, bensì bretone. Patrick Molard, classe 1951, ha studiato con Robert U. Brown e Robert B. Nicol (i famosi ‘Bobs of Balmoral’, entrambi Queen’s Pipers) e grazie alla loro guida ha approfondito lo studio del pibroch. Nel frattempo, ha partecipato da protagonista al cosiddetto ‘revival celtico’ degli anni ’70 lavorando dapprima al fianco di Alan Stivell, poi di Dan Ar Braz (memorabili i loro duetti con cornamusa e chitarra elettrica) e di altri personaggi storici di quell’intenso fenomeno musicale, e vincendo per tre anni di seguito (1981, 1982 e 1983) il McAllan Trophy di Lorient.

Questo album, il secondo dedicato alla ‘musica classica’ delle Highlands, potrebbe essere definito (parafrasando il titolo di un articolo apparso su Piping Today, n. 36-2008) “tutto il piacere del pibroch”.

Patrick non ha tralasciato lo studio della ceol mor dopo la morte di Brown e Nicol, al contrario è andato approfondendolo ancora di più grazie alla collaborazione di Andrew Wright e Eric Freyssinet, altro piper bretone, primo non scozzese ad aver composto un pibroch selezionato per la Senior Competition della Piobaireachd Society nel 2008 (e, finora, unico piper vivente ad esserci riuscito). Insomma, uno che se ne intende. Eric gli ha fornito una copia del secondo volume del cosiddetto Campbell Canntaireachd, o Nether Lorn Manuscript, nel quale ha trovato una vera chicca: Fhailt na misk o Fàilte na misge, ossia Salute to Drunkenness. Già meriterebbe una menzione speciale solamente per il titolo (si può tradurre come ‘Inno all’ebbrezza’), ma il tune è interessante per altri due motivi: è uno dei pibroch più brevi in assoluto (urlar e singling/doubling variation) e soprattutto, con ogni probabilità, non è stato mai suonato da due secoli a questa parte.

Molard è arrivato a questa conclusione parlando con Andrew Wright e con Barnaby Brown, un altro che ne capisce di pibroch, e parecchio. Analizzando sia il manoscritto che le pubblicazioni successive, è risultato che il brano non è stato mai pubblicato ed è rimasto allo stato di canntaireachd, ed esiste solo in quella fonte manoscritta. Lavorando alla sua decifrazione, e senza la possibilità di confrontarlo con altri testi a stampa, il piper bretone ha fatto leva sulla propria esperienza per trovare un fraseggio e un tempo adeguati. Il risultato, come ha detto lo stesso Wright, era quello ‘giusto’.

Il problema si è posto con altri brani tratti dallo stesso manoscritto, nei quali si trovano cinque o sette battute laddove ce ne dovrebbero essere quattro. Molard sostiene, come già Barnaby Brown, che probabilmente in passato esisteva una gran varietà di ritmi che oggi è andata perduta.

Non è questo il caso degli altri sei brani incisi, alcuni famosi (Lament for the Only Son, attribuito a Patrick Mòr McCrimmon), altri del tutto sconosciuti, come quello sopra citato. In ognuno di essi Molard ha riversato il suo amore per il pibroch, nato dall’incontro con i ‘Bobs of Balmoral’; e lo stesso Wright nota come egli abbia conservato una purezza espressiva non rintracciabile in altri esecutori, impegnati ad adattare il proprio stile ai dettami delle competitions. L’intero disco, peraltro, è stato registrato da Patrick a casa sua, per il proprio piacere, e poi affidato alla Macmeanmna per la produzione.

L’approccio globale di Molard alla ceol mor si può definire didattico, non solo per l’esplorazione e la proposta di brani inusuali, ma per il tentativo di avvicinare quanta più gente possibile a questo genere, solo apparentemente ostico (per l’ascoltatore, naturalmente). Così, quando deve eseguire in pubblico The Unjust Incarceration (non contenuto nell’album), spiega il significato delle parti dell’urlar: la prima, l’arresto; la seconda, la protesta, la terza, la vendetta. Riuscendo a ‘leggere’ un pibroch in questo modo (e, soprattutto, avendo qualcuno che fornisce le giuste chiavi di lettura), il pubblico si cala nel contesto e viene coinvolto.

La stessa cosa succede con le note di copertina del cd. Sette brevi storie per le sette tracce che lo compongono. The Munro’s Salute, il primo pibroch sentito da Molard, composto dallo stesso autore di The Unjust Incarceration, Iain Dall McKay; Fhailt na misk di cui abbiamo già detto; Clan Ranald’s Salute, che Patrick ascoltò per la prima volta dalle mani di John McFadyen, esperienza che ricorda ancora oggi; A Prelude (by John McDonald of Inverness), primo brano del cd ad essere stato inciso, opera del maestro di Brown e Nicol; Lament for the Only Son, che Patrick imparò la prima volta da Bob Brown ma poi riscoprì, per così dire, nel setting del manoscritto di Donald McDonald del 1826 e utilizzò per l’incisione.

Ho detto sette storie per sette tracce, ma ne ho descritte solo cinque. Le altre due sono più interessanti. The Waking of the Bridegroom è più di un brano: è un vero e proprio rito, una cerimonia nuziale. Il titolo significa, letteralmente, ‘Il risveglio dello sposo’. Preceduti dal piper, amici e parenti accompagnavano gli sposini verso la loro nuova casa. A partire dal mattino dopo, il piper tornava e suonava girando attorno alla casa per svegliare la coppia e accompagnarla nel luogo dove si sarebbero tenuti i festeggiamenti – che restavano senza conseguenze fin quando duravano meno di una settimana. Così è scritto nel volume David Glen’s Ancient Piobaireachd Collection del 1880, che descrive questo rito già antico per quei tempi ma non si pronuncia riguardo le ‘conseguenze’: ognuno lo interpreti come meglio crede.

Sir Ewen Cameron of Lochiel’s Salute, in quanto a conseguenze, è da sceneggiatura hollywoodiana. Il personaggio in questione era un guerriero formidabile, vissuto tra il 1629 e il 1718 (parecchio, visto il tipo e l’epoca in cui visse). Una volta affrontò un ufficiale inglese, e lo finì mordendolo alla gola e strappandogliene un pezzo (“il boccone più dolce che abbia mai mangiato”, disse più tardi). Alcuni anni dopo Sir Ewen, trovandosi a Londra, entrò da un barbiere per farsi radere e darsi una sistemata ai capelli. Mentre il rasoio cominciava la sua opera, il barbiere gli chiese: ‘Venite dal nord?’ ‘Sì’, rispose Ewen. ‘Perché, conoscete qualcuno proveniente dal nord?’ ‘No, e mi auguro di non conoscerne: sono dei selvaggi. Non ci crederete, ma uno di loro staccò a morsi la gola a mio padre, e spero di avere la gola di quel tizio qui davanti, come la vostra adesso’. Ewen non disse niente, e da allora non mise più piede in una bottega di barbiere.

Torniamo, dopo questo edificante episodio, al nostro Patrick Molard e al suo lavoro. L’album aggiunge qualcosa di nuovo al già variegato mondo delle incisioni discografiche, grazie alla meritoria opera che Molard persegue anche durante i concerti. Ma oltre all’obiettivo di divulgare l’arte del pibroch anche attraverso brani inediti, c’è un altro aspetto che vale la pena di rilevare. In questo caso, gli orecchi più raffinati potranno cogliere il fatto che vengono usate tre cornamuse diverse. La prima è un set di David Glen (e per trentacinque anni Patrick era convinto che fosse un set di James Center – gli fu venduto come tale). La seconda è una McDougall. La terza è una replica di un set di Alexander Glen del 1847, in ebano e avorio. Di conseguenza, ha anche tre diversi chanter: un Hardie costruito appositamente per lui nel 1989, uno Strathmore fabbricato da Murray Henderson nel 2007 e un Botuha (fabbricazione bretone: Jorj Botuha è uno dei principali pipe makers operanti in Bretagna) del 2003. Ognuno di essi differisce per gli armonici, per cui la resa sonora di ogni cornamusa è diversa. In un caso, come spiega Molard stesso, accade un fenomeno strano. Quando imbraccia il set di Alexander Glen, dal suono dolce e potente, migliore dell’originale (che ha avuto modo di provare), per i primi dieci minuti va tutto bene. Poi, dopo un quarto d’ora, non sente più i bordoni tenori: Patrick riesce ad avvertire solo il basso. Eppure, tutti e tre suonano regolarmente. Osservandoli, si è accorto che i fori sono differenti: i Glen costruivano i bordoni tenori in maniera che avessero toni diversi ma complementari, per cui, a parità di pitch, la qualità del suono era diversa. Anche la scelta del legno era (ed è tuttora) importante, e determinante per la spiegazione del fenomeno. Oggi è molto diffuso l’African Blackwood, ma gli strumenti dei Glen e dei McDougall sono fatti con ebano e cocus wood, capaci di assorbire meglio l’umidità; nella produzione di Edimburgo, si trattava di una sorta di marchio di fabbrica. Nella realizzazione dell’album, una finezza che esalta le caratteristiche dei singoli brani, dando a ognuno di essi un colore diverso a seconda delle proprie caratteristiche.