Armando e la brutta notizia

Questa storia di Armando è, purtroppo, una di quelle che non dovrebbero mai essere raccontate. L’affetto per il personaggio principale della vicenda, del quale per ovvi motivi ho cambiato il nome, mi ha spinto a narrarla. La musica in genere è fatta per gli altri, quando diventa fine a se stessa perde il suo senso; mi è sembrato quindi doveroso rendere omaggio nell’unico modo che conosco a chi percorre adesso strade sconosciute, e rendervi partecipi di questa esperienza.

 

 

 

Armando ha un grosso difetto: è molto sensibile. Si preoccupa quando qualcuno ha problemi, a volte si immedesima tanto da entrare nei panni dell’altro e stenta ad uscirne, come certi attori che non riescono più a uscire dal personaggio che interpretano. Ecco, ci sono momenti in cui Armando si trova in questa situazione. E di recente è successo di nuovo.

 

La nuova edizione della Spring School era appena finita. Come al solito, il nostro amico aveva dovuto rinunciare al workshop finale (ma che peccato, quanto ci avrebbe pensato nei giorni successivi) e aveva fatto rientro a casa una sera di domenica, con un mal di testa da impazzire. Certo, un motivo per soffrire così c’era: la sera prima (o meglio, la notte prima… meglio ancora, la mattina prima) si era andato a coricare intorno alle tre e mezza – quattro, dopo il concerto finale della School e soprattutto la sbornia finale al pub vicino al teatro. Certo, si era divertito assai, aveva conosciuto gente nuova e simpatica, ma quel tirare tardi aveva avuto effetti deleteri nel pomeriggio della partenza: imbarcatosi sul volo che lo avrebbe portato in Sicilia, non capì nemmeno quando l’aereo si staccò da terra. E dire che il decollo è il momento che più lo emoziona in un viaggio aereo! Comunque, il malessere era davvero forte. Non diminuì fino a notte tarda, quando finalmente arrivò a casa e andò a coricarsi, dopo sette ore tra viaggio e tempi di attesa di treno, aereo e pullman.

 

Riuscì, tutto sommato, a dormire abbastanza bene, a riposare quel tanto che bastava per riprendere il lavoro. La mattina, infatti, si era alzato fresco quasi come un quarto di pollo. Non poteva immaginare cosa lo avrebbe aspettato a scuola.

 

Sì, perché Armando è un maestro elementare. Quando i bambini fanno i bambini, e non fanno finta di fare gli adulti copiandone sempre, senza eccezioni, gli aspetti peggiori, li adora e passa sopra le loro monellerie, nel senso che le giustifica pur rimproverandoli quando ce n’è bisogno. Varcato il portone della scuola notò una certa freddezza nei visi dell’assistente agli alunni disabili e in una delle addette alla portineria. Salite le scale e arrivato al corridoio, salutò la bidella che rispose con un mezzo sorriso e le chiese se qualcosa non andava; la signora parlava di un problema con il telefono interno, e in quel momento Armando si accorse di alcuni cartelloni appesi alla parete e di un vaso di gigli poggiato per terra. Cercò di capire meglio di cosa si trattava quando sentì la voce della signora.

 

– Maestro, ma lei niente sa? Non lo sa cos’è successo?

 

– No, cos’è successo?

 

– Non lo sa di Fabio, il bambino della quinta B?!

 

Fu a quel punto che leggendo meglio le scritte dei cartelloni e vedendo le foto incollate sopra, capì che quel bambino non c’era più. Se lo era portato via un arresto cardiaco, a dieci anni, mentre giocava con il pallone, sotto casa. Si avvicinarono le altre maestre, anche loro con un’espressione scura in volto. Il fatto era successo alcuni giorni prima, ma Armando era partito e nessuno gli aveva detto nulla. Una collega gli spiegò meglio nei dettagli cosa era successo, e perché non lo avesse avvisato prima, mentre era fuori a studiare alla Spring School. A quel punto, l’unica cosa da fare, per non entrare in un cerchio mentale fatto di dolore, era di prendere l’alunno disabile col quale lavorava dall’inizio dell’anno e farlo studiare, pensando solo a quello.

 

Tornando a casa, e vedendo per la strada le magliette, i fiori, le letterine e i giocattoli appesi nell’inferriata davanti alla quale il bambino era morto, pensò a qualcosa da fare per lui. Sarebbe andato con le altre maestre a portare un fiore al cimitero, sicuramente; ma di altro, al momento, aveva bisogno per quel monello bellissimo e dolce che se n’era andato così. L’unica cosa che poteva fare, da maestro ma soprattutto da piper, era di dedicargli un brano. Così, iniziò la sessione pomeridiana di studio suonando ‘My Home’ per lui, solo per Fabio. Fu il modo meno carico di emotività per ricordarlo, io stesso lo capii quando Armando mi parlò di questo fatto, con la voce che gli si incrinava. E mi disse anche che, pur non ripassando da tempo quella slow air, non gli era venuta mai così bene.